mercoledì 11 aprile 2012

Carpe diem


La notizia circolava da alcuni giorni, ma solo ieri è stata ufficializzata da una nota del colosso svedese a firma dell’AD Italia. Ikea trasferisce alcune produzioni dall’Asia, Cina in particolare, all’Italia. E’ una notizia importante, importantissima. Ma non sorprende. Nel comparto mobili ed arredamento, il nostro Paese figura al terzo posto nella classifica dei fornitori IKEA, dopo appunto la Cina seguita dalla Polonia. Rappresenta – solo questo comparto - circa l’8% del totale degli acquisti del Gruppo. Anche l’anno orribile che si è appena concluso, ha comunque segnato un aspetto importante nel rapporto dare/avere: Ikea acquista in Italia più di quello che vende con i suoi megastores “serviti da solo”. Un fenomeno! Parafrasando le sacre scritture, è la pecorella che ritorna all’ovile. Si, perché alcuni anni orsono, Ikea aveva consentito, con i suoi ordinativi, la crescita di decine di piccole imprese terziste, in particolare nel nordest. Queste da una parte garantivano al Gigante qualità e flessibilità produttiva, dall’altra ha permesso loro di svilupparsi, consolidarsi e creare ricchezza per tutto l’indotto, dai produttori di pannelli truciolari, alla minuteria, alle vernici per il legno e così via.

Poi la crisi ha iniziato a mordere. Dapprima si sono abbozzate lunghe discussioni e trattative sui prezzi, poi sono comunque diminuiti gli ordinativi, infine si è conclamata la delocalizzazione. Risultato: imprese che si sono ridimensionate, altre sono andate in malora ed il vortice perverso si è chiuso con inevitabili problemi.

Oggi Ikea ritorna, grazie alla constatazione sul terreno cinese della maggior competenza dei nostri imprenditori  e della competitiva capacità produttiva delle nostre Aziende nel comparto mobili. Senza alcuna riserva, credo sia  una gran bella soddisfazione, soprattutto perché l’accordo raggiunto con alcuni produttori piemontesi porterà ad una ricaduta occupazionale collegata a queste commesse stimabile attorno ai 2.500 posti di lavoro. Di questi tempi  …direi che non è male!

Come dicevo, non mi sorprende. Conoscendo a fondo il mondo delle piccole  e medie imprese, sono da sempre un convinto sostenitore delle eccellenze italiane, a vari livelli, non solo nel segmento luxury dove siamo inequivocabilmente i numeri uno per fantasia e capacità manifatturiera. Il problema di fondo, spesso ribadito, è come poterle sostenere con adeguate politiche economiche. 
In secondo luogo, Ikea è solo l’ultima azienda arrivata in questo processo mondiale iniziato da circa un anno: lo chiamano insourcing, ovvero il ritorno a produrre nel vecchio continente. Non solo perché siamo “più bravi”, ma perché diventiamo sempre più competitivi rispetto alla Cina. Il costo della manodopera  in Cina sta crescendo rapidamente.  Molto rapidamente:  il 13% annuo. Insomma i lavoratori cinesi, anno dopo anno, guadagnano sempre di più. Certo, sono partiti da salari "ridicoli" per la nostra mentalità occidentale, ma con un ritmo annuo così sostenuto  la tendenza è chiara.
Dobbiamo poi aggiungere un altro fenomeno convergente:  tra il 2005 ed il 2012 la moneta cinese (yuan) si è apprezzata del 30% sul dollaro. Aumento dei salari e crescita del costo del denaro sono un mix che, giorno dopo giorno, rende meno appetibile delocalizzare in Cina.

Ho sempre considerato la globalizzazione come una opportunità e non una minaccia: occorre semplicemente prenderne atto! Nuovi potenziali consumatori si affacciano ogni giorno sul mercato, milioni di persone nel mondo da raggiungere. La questione aperta è un'altra: cosa vuole fare il Paese – leggi il Governo – e più in generale l’Europa per non creare ulteriori problemi, ovvero come gestire gli squilibri interni  alla Comunità dovuti ad una sostanziale mancanza di comunione nelle politiche fiscali e di welfare. Le troppe differenze tra gli Stati membri, una moneta, l’euro,  che è in uso a  tutti ma non appartiene a  nessuno,  pongono il Vecchio Continente in una difficile posizione rispetto ai competitors mondiali. Riguardo all’Italia, sarebbe opportuno, sull’esempio degli Stati Uniti, prevedere una serie di incentivi per le imprese che mantengono la produzione nel Paese, procedere senza indugi  ad una certificazione etica del Made in Italy  per salvaguardare il valore immateriale di questo che ho definito “supermarchio”,  spostare il focus delle imposte dal lavoro e dai lavoratori ai patrimoni ed alle rendite. Carpe diem, altrimenti la notizia di altre Ikea che ritornano nel Belpaese diventerà rara come un gatto che cade dal tetto!


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