giovedì 27 giugno 2013

Lavoro, le medicine sbagliate di Letta e Giovannini

27 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su formiche.net 
Lavoro, le medicine sbagliate di Letta e Giovannini
La malattia del sistema produttivo italiano non è la disoccupazione giovanile o la mancanza di lavoro in generale: questi sono solo i sintomi. L'analisi di Romano Perissinotto
Qualche linea di febbre causata da un comune raffreddore si può combattere con un analgesico. Immediatamente i sintomi della malattia si attenuano e si riprendono, sebbene ancora malati, le normali attività quotidiane, magari dopo aver riposato meglio alla notte. Il problema sorge allorquando si confondono i sintomi di una patologia ben più grave con il banale malanno citato, oppure si tende a sottovalutarne i possibili peggioramenti proprio perché l’aspirina ne attenua la sintomatologia.
L’ Italia era da tempo un paese malato. La febbre di cui soffriva, che è il primo segnale di una malattia in corso, è stata trascurata ed oggi è sempre più alta. Che fosse un organismo gracile, quindi a grande rischio infezioni, lo dicevano i dati della sua economia negli ultimi decenni. Ulteriormente debilitata da dosi massicce di morfina somministrata nel corso di quegli anni sotto forma di debito pubblico ed aumento della spesa, quando è stata chiamata a combattere l’epidemia conseguente ai virus finanziari sparsisi nel mondo dal 2008, si è ritrovata moribonda: oggi ha un fisico che rischia davvero di soccombere.
Al suo capezzale sono stati chiamati dal popolo molti medici, a volte purtroppo alcuni si sono dimostrati presunti tali. Il penultimo primario, quello imposto dall’austero ospedale europeo, ha somministrato una terapia a base di antibiotici in dosi da cavallo, impostata sul rigore e sull’aumento dell’imposizione fiscale. Peccato però che l’economia del Paese non era un purosangue da corsa, ma un cavallo da soma piuttosto sfiancato e la cura imposta l’ha poi stremata.
Il nuovo primario nominato dal recente consesso di colleghi con percorsi accademici di scuole opposte, tra i quali peraltro ci sono molti neo laureati a loro insaputa, ha introdotto ieri la sua nuova terapia. Ci saremmo aspettati un coraggioso intervento chirurgico che estirpasse le cellule malate dell’organismo, propedeutico ad eliminare così la causa del male all’origine, non un pavido provvedimento amministrativo che assume i connotati di un tampone. In questo modo, si è introdotto nel corpo italico circa un miliardo di aspirine, qualche intollerabile antibiotico di nuove tasse senza aver chiaro che non sono i sintomi a dover essere curati, ma la malattia. Occorreva un cambio di paradigma, la consapevolezza che la guarigione del malato si può ottenere concentrandosi sulla causa e non sugli effetti della patologia.
Difficile pensare che cotanti medici non siano in grado di diagnosticarla. La malattia del sistema produttivo italiano non è la disoccupazione giovanile o la mancanza di lavoro in generale: questi sono solo i sintomi. Occorre intervenire chirurgicamente con decisione sui tagli alla spesa pubblica, sulle imposte che gravano sulle imprese e sulle famiglie, sullo snellimento del granitico apparato burocratico dello Stato, favorendo le liberalizzazioni e la privatizzazione del patrimonio pubblico improduttivo, incentivando i processi di investimenti privati nel capitale di rischio delle imprese, molte eccellenti per capacità manifatturiera e talento creativo ma spesso sottocapitalizzate ed in asfissia finanziaria perenne, quindi troppo deboli per espandersi e competere.
Le aspirine servono a ben poco in presenza di un moribondo, nondimeno è ingenuo o diabolico sprecarle sull’altare di chissà quali aspettative o progetti futuri di governo. Nonostante i boati di entusiasmo di alcuni medici di governo, l’impressione che se ne trae è purtroppo quella di una ennesima presa per i fondelli in attesa di andare tutti, o quei pochi fortunati, felicemente al mare in agosto. Sarà però un autunno caldo, caldissimo, che rischia davvero di bruciare le poche illusioni e le residue speranze degli italiani.


Berlusconi, Marina, Renzi. Ecco che cosa può succedere dopo la sentenza Ruby

25 - 06 - 2013 Romano Perissinotto

pubblicato su www.formiche.net  


Berlusconi, Marina, Renzi. Ecco che cosa può succedere dopo la sentenza Ruby

Caro direttore,
Tra i tanti, ci sono due aspetti della vicenda Ruby che mi hanno colpito. Uno, con le dichiarazioni Marina Berlusconi, è legato alla sfera privata del Cavaliere, l’altro ai risvolti che la sentenza di Milano potrà avere sul futuro prossimo del governo Letta e di conseguenza su quello del Paese: credo siano strettamente legati, vediamo il perché.
Il primo. Marina è una donna intelligente, capace e determinata. La rivista americana Forbes l’ha definita alcuni anni fa come la più potente d’Italia, tra le prime cinquanta al mondo, unica italiana presente nella speciale classifica della rivista americana.
E’ entrata nelle aziende di famiglia fin da giovanissima, ricoprendo negli anni ruoli via via sempre più di rilevanti fino ad arrivare alla presidenza del gruppo fondato dal famoso padre che di nome fa Silvio. Una brillante carriera non solamente imputabile al cognome che porta, Berlusconi, ma soprattutto alle sue doti personali di abile ed attenta imprenditrice. Tra le figlie del Cavaliere, essendo tra l’altro la primogenita, è quella che sicuramente si è ritagliata un posto particolare nella vita privata del padre, assumendo in parte quello della nonna Rosa scomparsa nel 2008, che in vita fu sempre prodiga di consigli ed affettuose manifestazioni d’amore nei confronti del figlio e da lui sempre ascoltata. E’ noto come si debba a mamma Rosa la decisione finale di Berlusconi ad entrare in politica dopo che tutta la sua cerchia più intima, a partire dall’amico d’infanzia Fidel, lo avevano scoraggiato in tal senso. Alcuni ancora la rimproverano per questo.

Leggendo quindi le dichiarazioni di Marina Berlusconi in merito alla sentenza che ha visto condannare il padre per la questione Ruby, si avverte una precisa differenza rispetto a quelle precedenti relative agli altri processi a carico del Cavaliere che si sono succeduti negli ultimi venti anni. Certamente sono sempre cariche della medesima determinazione ed amarezza nell’identificare l’utilizzo della giustizia quale mezzo per eliminare l’avversario dalla scena politica. Tuttavia, ciò che emerge con chiarezza è la delusione di una figlia che si ribella perché, in questo caso, non si tratta solo di una sentenza, di un provvedimento giuridico sul quale è lecito discutere, bensì di un giudizio morale sulla vita privata del padre. Come figlia non lo riconosce e non può accettare che sia descritto come un anziano ricco puttaniere, sfruttatore di povere ragazze indifese, tanto da dover diventare un concussore nel tentativo di nascondere i suoi peggiori vizi. Concussore peraltro ingenuo o stupido, dato che avrebbe potuto tranquillamente affidare ad altri il compito della famosa telefonata alla questura milanese. Su quale ordine costrittivo abbia poi dato, rimangono molti dubbi, dato che i presunti concussi pare abbiano negato la concussione. Come, dall’altra parte, la presunta prostituta minorenne ha negato di aver mai avuto rapporti intimi con il Cavaliere. Sono certamente valutazioni che spettano a chi conosce gli atti, ma in attesa delle motivazioni della sentenza qualche dubbio e sospetto di essere di fronte ad un enorme giudizio morale ed ipocrita inevitabilmente si fanno strada: in tutto ciò nulla sarebbe riferibile all’ordinamento giuridico di uno Stato di diritto, rispettoso della dignità dell’uomo, di tutti i cittadini, compreso Silvio Berlusconi.
Qualche giorno fa, in occasione di una sua intervista, un lobbista che sussurra ai potenti indicava in Marina Berlusconi l’unica erede possibile per guidare in futuro il movimento politico fondato dal padre Silvio.
Da questa considerazione di Bisignani, veniamo al secondo punto di cui all’inizio: che succede ora al governo delle larghe intese? Al di là delle dichiarazioni di circostanza e della gravità della sentenza citata, ritengo che il vero punto critico sarà rappresentato dal verdetto della Cassazione sulla faccenda diritti Mediaset che dovrebbe arrivare a novembre. Nel frattempo, è però inevitabile che tutto il Pdl faccia quadrato attorno al suo leader, spostando la priorità dell’azione dell’esecutivo sulla questione della giustizia, rendendola così dirimente sulle future sorti delpremier Letta.
I malumori nel Pd per una forzata convivenza con coloro che molti di loro continuano a vedere come un nemico sono di tutta evidenza: difficile pensare che non possano acuirsi una volta che il dibattito sulla riforma della giustizia prenda il via. Qualsiasi aspetto possa anche lontanamente riguardare la situazione del leader del centrodestra, sarebbe visto come una ulteriore concessione, un tradimento dei principi casti e puri, spesso stucchevoli e supponenti, di quella sinistra un po’ bacchettona e moralista che ancora non ha metabolizzato il responso delle urne e, probabilmente, non perdona alla realtà di non essere quella che vorrebbe che sia.
Letta vivrà quindi in uno stato di fibrillazione continua. Seppur abile funambolo ex democristiano, avvezzo alle correnti ed agli umori di partito, dovrà guardarsi dagli “amici” interni, per di più con l’ingombrante fantasma di Renzi all’orizzonte, sempre pronto a soddisfare la propria smisurata e legittima ambizione politica.

Mentre si riaccende violentemente la sterile questione giudiziaria su Berlusconi, in assenza di altri potenziali leader nel centrodestra, si profilano settimane di fuoco che condurranno (forse) ad un prossimo confronto diretto tra l’erede del Cavaliere che porta il suo stesso cognome ed il guascone toscano. Temo che a farne le spese saranno gli italiani, oramai esausti dalla crisi e dalla mancanza di prospettive concrete. Soprattutto temo che non servirà a nulla: la figura di un leader è si necessaria, ma in mancanza di un modello istituzionale che possa garantirgli poi la possibilità di governare, senza dover soggiogare alle misere istanze di coalizioni deboli legate ai piccoli interessi di parte, assisteremo ad un ennesimo fallimento ed alla consacrazione dei burocrati di Stato, quelli che hanno davvero vinto nel passato e continuano a vincere nel presente

mercoledì 26 giugno 2013

Semipresidenzialismo: un percorso obbligato


"Le sorti del Paese stanno nelle mani degli industriali privati e pubblici, dei finanzieri, dei commercianti, dei professionisti, degli intellettuali, degli scienziati, dei docenti, degli operai, dei contadini, degli impiegati, degli artigiani. E stanno nelle mani delle esperienze degli anziani e della volontà di affermazione, di sacrificio e di conquista dei giovani.


Occorre che l’enorme potenziale espresso da queste straordinarie risorse possa essere valorizzato con  tutta la sua forza positiva. Occorre realizzare quella riforma costituzionale affinché disponga della possibilità di decidere direttamente da chi farsi governare." 

venerdì 21 giugno 2013


Perché Italia Aperta non è il solito club di liberali


20 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su www.formiche.net 

Perché Italia Aperta non è il solito club di liberali

Sarà data una pagella che valuterà la bontà dei provvedimenti pubblici basandosi sui parametri internazionali della Banca Mondiale. E si sa, gli atti della pubblica amministrazione, da quelli del governo centrale fino al più piccolo dei comune, incidono sulla vita quotidiana di tutti i cittadini, quindi li interessa da vicino...
Caro direttore,
quando l’amico Alessandro De Nicola per la prima volta mi accennò dell’iniziativa durante una colazione di lavoro nel suo studio milanese, classicamente arredato in perfetto stile british, ricordo che l’idea mi incuriosì ed interessò molto. Mi colpì l’espressione del viso e l’entusiasmo con cui descriveva il progetto di quella che oggi è diventata una associazione liberale e liberista che, come egli stesso ha poi recentemente scritto “crede nell’efficienza dell’economia di mercato, della concorrenza e della libera iniziativa, nello Stato di diritto e nei diritti di libertà, civile, politica, economica”
Posso oggi pubblicamente confessare che, ascoltandolo, inizialmente qualche riserva mi venne spontanea, sebbene non volendo rischiare di urtare la sensibilità del mio ospite, la tenni rigorosamente per me. La mente tornava alle precedenti esperienze di Fare, a quella vissuta in prima persona con Italia Futura, agli entusiasmi seguiti poi da delusioni e, soprattutto, ero timoroso per la permalosità e smania di protagonismo che caratterizza noi liberali, i soliti quattro gatti sempre pronti a discutere tra di loro, a volte persino se il caffè del mattino al bar sia più buono con lo zucchero o senza, rimanendo lì per ore, finendo ognuno sulla propria posizione quando oramai è giunta l’ora dell’aperitivo. Difficile fare proseliti in questo modo.
Tuttavia è nel metodo di lavoro che Italia Aperta rappresenta una novità rispetto al passato. Qui non si tratta di unire alcuni personaggi più o meno noti, raccattare un po’ di denaro per sostenere i costi di qualche convegno e discutere poi su temi generici, magari in maniera dotta e con spirito intellettuale per compiacere i media. Al contrario tutti potranno lavorare su temi concreti, verrà data una pagella che valuterà la bontà dei provvedimenti pubblici basandosi sui parametri internazionali della Banca Mondiale. E si sa, gli atti della pubblica amministrazione, da quelli del governo centrale fino al più piccolo dei comune, incidono sulla vita quotidiana di tutti i cittadini, quindi li interessa da vicino.
In questo, a mio avviso, è la grande opportunità che Italia Aperta: portare alla gente la visione liberale dello Stato, le istanze pro mercato valutando atti concreti e contribuire così ad accrescere in sempre più persone la consapevolezza che, fra tanta confusione generale ed un malcelato tentativo da parte di alcuni di tornare ad uno statalismo devastante, una via alternativa c’è e si dovrà necessariamente percorrere.
Abbandonata quindi ogni perplessità, ecco il motivo per il quale sono tra i primi firmatari, ecco perché occorre augurare buona fortuna e dare il benvenuto Italia Aperta.

venerdì 14 giugno 2013

Perché non può esserci una scossa all’economia


13 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su www.formiche.net
Perché non può esserci una scossa all'economia
O si cambiano gli italiani, tutti, oppure si riforma l’assetto istituzionale, intervenendo quindi sulla causa e non sull’effetto, conferendo all’esecutivo, eletto direttamente dal popolo, il concreto potere di governare senza dover continuamente sottostare agli umori della gente e del Palazzo...
Caro direttore,
il ministro dello Sviluppo economico incassa i fischi dalla platea di Confcommercio. Una sonora contestazione dei commercianti, peraltro senza che Flavio Zanonato abbia esplicitamente confermato il previsto aumento dell’Iva.
Commette un’ingenuità che non è consentita a un esponente del governo in un momento in cui gli animi sono, giustamente, molto agitati e preoccupati. Poi, in un maldestro tentativo di recupero, sbaglia tentando di giustificare la sortita nel ricordare che il provvedimento era stato programmato dal precedente governo Monti.
Guarda nello specchietto retrovisore, il ministro, non capendo che gli imprenditori chiedono di essere illuminati sulla strada che l’attuale governo intende percorrere, auspicando che le buche rappresentate dalle imposte e dalla burocrazia siano prontamente sistemate, ovvero vengano eliminati balzelli e laccioli e, soprattutto, non ne siano creati di nuovi.
Vedremo sull’Iva cosa deciderà il governo nei prossimi giorni, ma è significativo notare la discrasia dell’intervento del ministro, peraltro comune ad altre recenti infelice sortite di unsottosegretario alla cultura e al turismo sulla, a suo dire, scarsa qualità della cucina italiana sollevando, giustamente a mio parere, dure prese di posizione da parte dei diretti interessati. Per non citare poi quelle del ministro Cécile Kyenge sullo ius soli e le proteste sollevate a Milano per un suo presunto uso disinvolto della scorta ed il mancato rispetto dei sensi unici.
Quindi, si potrebbe pensare che una siffatta mancanza di coordinamento provochi uscite ed apparizioni pubbliche quantomeno ingenue da parte di alcuni esponenti del governo, e che la stessa  abbia origine da una sostanziale confusione che aleggia su palazzo Chigi, quella che il Financial Times definisce come una sorta di letargo prolungato del premier Letta, esortandolo ad agire, a fare.
Tuttavia, Letta non è certamente uno sprovveduto, tantomeno un incapace o un inetto privo di esperienza politica. Se da una parte alcuni esponenti del suo governo sono, diciamo, vittime dell’inesperienza che li porta a commettere ingenuità o errori come quelli citati, dall’altra è il modello istituzionale che ostacola una decisa quanto rapida velocità d’azione. Quell’apparente mancanza di cogliere a fondo l’importanza del “fattore tempo” nell’azione di governo altro non è che il risultato dei vincoli che si creano dall’influenza esercitata dai partiti, ovvero dai reciproci out out, a volte veri e propri steccati e veti incrociati che derivano dalla necessità di mantenere e difendere il loro consenso e bacino elettorale.
Una democrazia parlamentare diventa quindi un costo in termini di tempi decisionali e conseguenti azioni dirette sul sistema produttivo, finanziario e sociale che non ci possiamo più permettere perché, avvitandosi su se stessa anche a  causa dell’eterogeneità e della volubilità degli italiani, oltre che dalla mediazione di partiti politici logori e in alcuni casi finiti, di fatto è palesemente inadeguata ai dinamici tempi di reazione richiesti dalla nuova geografia politica ed economica mondiale.
In conclusione: o si cambiano gli italiani, tutti, oppure si riforma l’assetto istituzionale, intervenendo quindi sulla causa e non sull’effetto, conferendo all’esecutivo, eletto direttamente dal popolo, il concreto potere di governare senza dover continuamente sottostare agli umori della gente e del palazzo. Il modello semipresidenzialista risponde a questa improcrastinabile esigenza responsabilizzando nel contempo anche noi cittadini nel metterci di fronte alle nostre scelte.
Con buona pace dei timorosi preoccupati degli esempi sudamericani e dei paladini dell’immutabilità della più bella del mondo contrari a questa riforma, è bene ricordare che i regimi autoritari e dittatoriali si formano laddove c’è assenza di una adeguata azione di governo e non viceversa.

lunedì 10 giugno 2013

Berlusconi e Consulta, terremoto a Palazzo Chigi?


07 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su www.formiche.net
Berlusconi e Consulta, terremoto a Palazzo Chigi?
Mancano pochi giorni a quella fatidica data, il 19 giugno, quando la Corte Costituzionale sarà chiamata ad esprimersi sui destini di un processo che ha condannato il vincitore delle ultime elezioni, soprattutto del post elezioni, a una pena che lo vedrebbe interdetto dai pubblici uffici, quindi fuori dal Parlamento.
TERREMOTO A PALAZZO CHIGI?
Sulla rilevanza dei processi a carico di Silvio Berlusconi rispetto al futuro destino del governo Letta si è scritto di tutto e di più. Al di là delle dichiarazioni di circostanza più volte ribadite sui media dai vari protagonisti, solo un ingenuo può pensare che una sentenza avversa al leader del Pdl non comporti un terremoto a Palazzo Chigi, come peraltro solo uno sprovveduto può identificare la fine della storia politica di Berlusconi con una sua eventuale eliminazione dal Senato.
LEGATI AL DESTINO DI BERLUSCONI
Quindi i delicati equilibri di un governo di larghe intese, anomalo quanto straordinario nei numeri della sua maggioranza, trattandosi di un governo politico e non tecnico, vivono appesi a quel fragile filo lungo seicento chilometri, ordito tra i palazzi della politica romana e della giustizia milanese, dove sono in molti a pensare che la legge sia uguale per tutti ma non tutti sono uguali di fronte ai pubblici ministeri.
LA FORZA DEL CONSENSO POPOLARE
La forza di Silvio Berlusconi deriva dal consenso popolare. Senza entrare nel merito di stucchevoli questioni sui contenuti della sua proposta politica ed analisi sociologiche che, dopo venti anni, di successi ed alcuni fallimenti, ancora lo determinano, è pacifico che il leone di Arcore è ancora il sovrano indiscusso del suo partito e si conferma quale riferimento politico personale di un terzo degli italiani, peraltro in crescita nei sondaggi.
LA STRATEGIA DEL CAVALIERE
Tuttavia, dopo aver vinto molte battaglie nei confronti dei giudici milanesi con assoluzioni o prescrizioni, la sua guerra personale ai giudici milanesi è giunta allo scontro finale. Da abile stratega, Berlusconi è pienamente consapevole che le battaglie si vincono prima di essere combattute, quindi che fa? Gli organizzano manifestazioni di piazza per compattare i proseliti, manda avanti gli esploratori, in particolare una, la Santanché con le sue esternazioni, l’ultima delle quali paventa addirittura una eventuale rivolta fiscale degli elettori del centrodestra in caso di condanna definitiva del Cavaliere.
Ma non basta, occorre andare oltre: bisogna individuare uno spunto tra quelli utilizzati in campagna elettorale per rinvigorire il sostegno ed il consenso popolare. La soluzione? E’ a portata di mano: è Letta, ovvero utilizzare il suo governo (che è quello voluto da Berlusconi) esortandolo a battere i pugni sul tavolo europeo, opponendosi al rigore della Cancelliera Merkel e dell’egemonia tedesca sulle decisioni del consesso europeo.
DALLA PARTE DEL POPOLO
A prescindere dalle singole opinioni in merito alla bontà delle strategie e delle azioni dei troppi burocrati europei in questi ultimi cinque anni di crisi, dalle considerazioni su una moneta unica di tutti e di nessuno, paradossalmente nata prima di una unione fiscale europea, quello di Berlusconi è un colpo da maestro. Nel merito, è ininfluente l’atteggiamento che il premier Letta assumerà nei confronti dei colleghi, in particolare della Merkel, rispetto all’obiettivo che il Cavaliere raggiunge: cavalca il sentiment popolare, diventandone così il paladino, l’uomo che esortando il governo a non piegarsi ai diktat di Berlino conforta i cittadini italiani, alcuni direbbero illude, dando loro una possibile soluzione alternativa e definitiva per una nuova via da percorrere e sconfiggere la paura del futuro.
Incamera punti di consenso, utilissimi e spendibili a breve per evitare che quel prossimo 19 giugno si prospetti come una giornata nera per il Cavaliere e temo, purtroppo, per tutti i cittadini italiani. In ogni caso, è sempre lui, è sempre Silvio Berlusconi, angelo o diavolo, a fare notizia.

giovedì 6 giugno 2013

Renzi, che cosa vuoi fare da grande?


06 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su www.fromiche.net

Renzi, che cosa vuoi fare da grande?
Quello che alla fine traspare con le sue ultime sortite, e soprattutto viene percepito, è uno stato confusionale che fa a pugni con l’immagine di chiarezza, novità e decisionismo che l’abile sindaco di Firenze si è costruito nel tempo. E l'ultima intervista al Corriere contribuisce a rafforzare questa sensazione... Ecco perché
In queste ultime settimane è curioso osservare come il paladino del rinnovamento, della politica del fare, del “poche chiacchiere e pedalare”, abbia assunto un comportamento ondivago, a volte infastidito, sempre più sfuggente. Curioso perché quel paladino di nome fa Matteo e di cognome Renzi.
Il guascone toscano possiede il dono di saper recepire gli umori della gente come pochi altri leader politici italiani (paragonabile credo ad uno solo che lo invitò a pranzo a casa sua per studiarlo),  il talento di  tradurli in messaggi semplici e comprensibili a tutti e non solo ad una  ristretta cerchia di eletti depositari della verità, con quella giusta dose di populismo che serve per arrivare alla pancia degli elettori. La natura gli ha regalato un fisico che gli consente la spavalderia di presentarsi in tv indossando un giubbotto alla Fonzie, in una trasmissione condotta dalla nazional popolare Maria, che non è sicuramente un salotto intellettuale radical chic caro ai brontosauri bacchettoni del Pd, ma fa milioni di ascolto.
Cosa sta succedendo ora al monello rompiscatole, ex rottamatore del Pd, ovvero cosa vuole fare da grande? Chiamato a rispondere su questioni che riguardano il suo futuro ruolo nello scenario politico nazionale, Renzi appare sostanzialmente poco, per nulla chiaro. Si candiderà a segretario del suo partito? Il monello risponde si, no, forse.. se il partito lo chiamerà. Ma come, caro sindaco, dove è finita la spinta propulsiva, l’attivismo e l’energia delle primarie? Che fai, aspetti?
E sulla premiership? Non era il suo turno, dice. E poi lui userebbe il trapano e non il cacciavite come sostiene stia facendo Letta, lanciandogli peraltro un non piccolo siluro. Da una parte si dichiara disponibile a succedergli, dall’altra la cosa gli interessa poco, almeno nell’immediato futuro. Mah.
Infine sul tema del giorno, il presidenzialismo, Renzi si esprime con toni tiepidamente favorevoli, ma vede di buon occhio anche un premierato forte. Se da una parte riconosce la fondamentale importanza che ci sia qualcuno in grado di assumersi la responsabilità di decidere, dall’altro svilisce così il tutto ad una questione di secondaria importanza ciò che invece riguarda l’assetto istituzionale della Repubblica, con implicazioni dirette nella vita quotidiana di tutti i cittadini.
Quello che alla fine traspare, e soprattutto viene percepito, è uno stato confusionale che fa a pugni  con l’immagine di chiarezza, novità e decisionismo che l’abile sindaco di Firenze si è costruito nel tempo. Sebbene il suo gradimento sia ancora elevato, tutto ciò rischia di avvitarlo in una spirale pericolosa, per i suoi futuri progetti, che sa di stantio e più consona a vecchi modelli di ispirazione e memoria dorotea. Rischia, il monello, che la sua proclamata rivoluzione blairiana, in un Paese volubile come il nostro, resti nell’archivio dei progetti sognati, etichettata come incompiuta: dato il suo talento, le prerogative personali e le indubbie capacità, sarebbe uno spreco e Dante lo condannerebbe sicuramente all’inferno.
Suvvia, Matteo, dicci chiaramente cosa vuoi fare da grande.

mercoledì 5 giugno 2013

Bossi e Maroni s’erano tanto amati


05 - 06 - 2013Romano Perissinotto

pubblicato su www.formiche.net 
Bossi e Maroni s'erano tanto amati
Trattasi di uno scontro sugli ideali e la gestione del partito, oppure il tutto si riconduce a una diatriba per questioni economiche?...
Caro Direttore,
come sono lontani i tempi in cui l’Umberto e il Roberto muovevano i primi passi della loro avventura politica attaccando manifesti abusivi che inneggiavano all’indipendenza del Nord, prendevano pure le botte ma ostinatamente andavano avanti. Ne hanno fatta di strada insieme. Ma la politica, dicono, logora i rapporti personali e il potere ancora di più. Già, perché da quel tempo, occorre riconoscere che la Lega, da movimento popolare di protesta contro il centralismo romano, ne ha fatta di strada: da Varese è giunta persino a Roma, città capace di omogeneizzare anche i casti e puri barbari padani.
Dopo manette, mortadelle e champagne in Parlamento, i due vecchi amici si sono ritrovati in casa Belsito, la Rosy Mauro vicepresidente del Senato, un presidente del consiglio regionale lombardo, Davide Boni inquisito, peraltro in compagnia di molti altri colleghi. Infine il giovane, intellettuale con tanto di laurea albanese, Renzo, ribattezzato “Trota” dal padre che, almeno in questo, ha saputo dimostrare lucidità e visione. L’anno scorso, in una serata primaverile in quel di Bergamo, a colpi di scopa e al grido di “chi sbaglia paga”, la successione: Maroni viene acclamato nuovo leader, mentre il vecchio e malato Umberto, commosso, recitando il mea culpa, gli consegna di fatto il testimone, accontentandosi di mantenere “solo” alcuni privilegi. Tradotti in soldoni, si scopre oggi che quei benefit ammonterebbero a circa un milione di euro l’anno…
Viviamo in tempi difficili, la crisi investe anche i partiti ed è sempre più arduo far quadrare i conti. Così il consiglio federale leghista ha deciso il taglio delle spese non collegate all’attività politica del movimento”. Per il Senatùr in gabbia, già ferito nell’orgoglio, è una mazzata, considerando altresì che parte di quel appannaggio era destinata alla scuola privata della moglie ed a segretarie ed assistenti personali.
Troppo duro il colpo, ma il vecchio leone, sebbene acciaccato dall’età e dai malanni, reagisce. Rilascia interviste, fioccano le accuse, gli insulti e le ripicche. “Devo ricostruire la Lega, l’hanno distrutta” ed ancora “aspetto il Congresso, mi candiderò prima che non resti più nulla della Lega” sono i toni più morbidi usati dall’Umberto. Sa di poter contare ancora, di godere di quel carisma rude e efficace nei confronti del popolo leghista della vecchia guardia. Il “civilizzato” Maroni e il fido Matteo Salvini dovranno sudare h24 per fronteggiare il vecchio leader.
Tuttavia il dubbio rimane: trattasi di uno scontro sugli ideali e la gestione del partito, oppure il tutto si riconduce a una diatriba per questioni economiche? Di certo, il “C’eravamo tanto amati” è il titolo ideale per il romanzo leghista che pare giunto a questo desolante e patetico capitolo finale.

lunedì 3 giugno 2013


Caro Saviano, il presidenzialismo non è un tabù

pubblicato su formiche.net 

03 - 06 - 2013Romano Perissinotto
Caro Saviano, il presidenzialismo non è un tabù

I vari Nichi Vendola, Rosy Bindi e persino un onnisciente quanto noioso Roberto Saviano sono ancorati alla paura del cambiamento, al tabù dell’immutata valenza della cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”, dimenticando così il periodo storico nel quale fu redatta.
Caro direttore,
diciamolo chiaramente: l’appello lanciato da Giovanni Guzzetta e dal comitato promotore del disegno di legge di iniziativa popolare per una riforma in senso semipresidenziale – presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, sistema elettorale maggioritario a doppio turno, superamento del bicameralismo perfetto – ha ottenuto un primo, grande successo. Non mi riferisco solo alla straordinaria partecipazione bipartisan alla presentazione dell’iniziativa“Scegliamoci la Repubblica” sabato scorso a Roma, bensì alla crepa che ha provocato nel muro di resistenze e conservatorismo che ha impedito negli ultimi decenni una reale governabilità del Paese, manifestando la sostanziale incapacità del nostro attuale ordinamento di arginare la crisi politica ed evitare che quest’ultima debordasse nelle istituzioni con una crescente disillusione, spesso disaffezione ed a volte avversione dei cittadini.
Positive in tal senso le dichiarazioni di sostegno di alcuni esponenti della sinistra italiana, storicamente la più restia ad un tale cambiamento. Da Walter Veltroni, Romano Prodi al nuovo segretario Guglielmo Epifani per citarne alcuni, riconoscono attraverso le dichiarazioni riportate dai media, l’opportunità rappresentata dal modello francese sotto il profilo di una democrazia che possa essere davvero governante. Evidentemente i risultati delle ultime elezioni devono aver fatto riflettere molto in casa Pd… Dall’altra parte, in casa Pdl, è noto dai tempi della famosa proposta choc di Angelino Alfano e Silvio Berlusconi del 2012, ci si dichiara favorevoli ad una qualche forma di presidenzialismo.
C’è quindi da ben sperare, nonostante le opinioni contrarie di alcuni. I vari Nichi Vendola, Rosy Bindi e persino un onnisciente quanto noioso Roberto Saviano sono ancorati alla paura del cambiamento, al tabù dell’immutata valenza della cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”, dimenticando così il periodo storico nel quale fu redatta. Leggo peraltro una sorta di scarsa considerazione verso gli italiani da parte di questi signori, e di ciò sono francamente infastidito.
Al contrario, ciò che si dovrebbe considerare, alla luce degli esiti e della partecipazione popolare al voto, è che gli italiani non sono più disposti a delegare alla mediazione dei partiti, sono stanchi di esecutivi deboli pertanto inadatti a reagire ai cambiamenti geopolitici, economici e sociali e, soprattutto, non sono più disposti a perdonare un ennesimo fallimento che non dovesse vederli direttamente protagonisti.
Intervenendo sabato scorso in qualità di membro del comitato promotore, ho voluto ribadire che la proposta di riforma semipresidenzialista non è una semplice accademia astratta, da salotto intellettuale, bensì riguarda le questioni vere che interessano la vita delle imprese e delle famiglie. Il nostro attuale modello democratico, frammentato nell’offerta politica e così caratterizzato cronicamente da esecutivi deboli frutto di coalizioni instabili, ha fallito ed occorre intervenire.
Non essere in grado di prendere di petto la situazione, di ricorrere a sterili compromessi spesso legati ad ottenere un effimero consenso, o la protesta fine a se stessa è un costo che non ci possiamo più permettere. L’unica soluzione è accentrare il potere di decidere e fare nelle mani di un Presidente la cui legittimità deriva dall’elezione diretta dal popolo. Così saremo tutti più responsabili, cittadini e partiti: in ogni caso, potremo scegliere “l’uomo forte” e non subirlo.

la Terza Repubblica parte da #eleggiamociilpresidente

estratto da  www.publicpolicy.it

DIREZIONE PRESIDENZIALISMO 

Il 14 maggio 2013 Guzzetta & Co. hanno depositato in 
Cassazione un progetto di legge costituzionale di 
iniziativa popolare per "l'introduzione dell'elezione 
popolare diretta del capo dello Stato; la fine del 
bicameralismo; un sistema elettorale per la Camera 
uninominale a doppio turno; la riduzione dei membri della 
Camera politica; un referendum obbligatorio che consenta ai 
cittadini di pronunziarsi su questa riforma". 

Basta modificare l'articolo 83 della Costituzione - "Il 
presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento" - così: 
"Il presidente della Repubblica è eletto a suffragio 
universale a maggioranza assoluta dei votanti. Qualora 
nessun candidato abbia conseguito la maggioranza, il 
quattordicesimo giorno successivo si procede al ballottaggio 
tra i due candidati che abbiano conseguito il maggior numero 
di voti". 

La soglia dell'età per essere eletti diventa 35 anni (non 
più 50) e la durata dell'incarico è 4 anni con una sola 
possibilità di rielezione. "Gli atti del presidente della 
Repubblica - si legge ancora - adottati su proposta del 
Primo ministro o dei ministri sono controfirmati dal 
proponente, che se ne assume la responsabilità". 

"Non sono sottoposti a controfirma la nomina e la revoca 
del Primo ministro, l'indizione delle elezioni delle Camere e 
il loro scioglimento, l'indizione dei referendum nei casi previsti 
dalla Costituzione, il rinvio e la promulgazione delle 
leggi, l'emanazione dei decreti-legge e dei decreti 
legislativi delegati, l'invio dei messaggi alle Camere, le 
nomine che sono attribuite al presidente della Repubblica 
dalla Costituzione e quelle per le quali la legge non 
prevede la proposta del Governo". 

LE ALTRE MODIFICHE 
475 deputati (al posto degli attuali 630), eletti "a 
suffragio universale e diretto, con sistema maggioritario 
uninominale". Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori 
che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i 18 anni (al 
posto degli attuali 25). Il Senato viene eletto invece "in 
forma indiretta" e "assicura la rappresentanza degli enti 
territoriali". Bye bye alle circoscrizioni Estero. 

La durata delle Camere è fissata a 4 anni, uno in meno di 
adesso; il candidato alla presidenza della Repubblica 
risultato non eletto "che abbia ottenuto il maggior numero 
di voti o che abbia partecipato al ballottaggio è membro di 
diritto della Camera". Per quanto riguarda l'opposizione: "I 
regolamenti delle Camere definiscono lo statuto 
dell'opposizione con particolare riferimento all'esercizio 
delle funzioni di controllo e di garanzia". 

La funzione legislativa è esercitata dalla Camera. Per 
quanto riguarda il Senato, secondo la proposta la 
Costituzione prevederà "i casi e i modi" in cui Palazzo 
Madama parteciperà "all'esercizio della funzione 
legislativa". 

"Il Governo della Repubblica - si leggerebbe infine nel 
'nuovo' articolo 92 della Costituzione - è composto del 
Primo ministro e dei ministri, che costituiscono insieme il 
Consiglio dei ministri. Il presidente della Repubblica 
nomina e revoca il Primo ministro e, su proposta di questo, 
nomina e revoca i ministri. Il presidente della Repubblica 
presiede il Consiglio dei ministri". (Public Policy)