Basta chiacchiere, cambiamo paradigma anche in Europa
La coperta è troppo corta ed il periodo delle chiacchiere e degli interventi tampone è davvero finito. E’ inutile stare ad elencare tutti i giorni gli errori commessi in passato, come è noioso e sterile da parte dei politici il vomitarsi addosso reciprocamente colpe e responsabilità con le comparsate televisive dei soliti volti noti. Siamo giunti alla resa dei conti per un Paese in ginocchio ed è tempo di guardare in faccia la realtà, di prendere consapevolezza del presente per delineare chiaramente un futuro che non riguarda solo il nostro tafazziano e meraviglioso Paese, bensì quello dell’Europa.
Numeri alla mano, la stagione tecnica del rigore montiano si è conclusa con un fallimento. Cosa ci ha insegnato? Sostanzialmente una cosa: la salute del sistema Italia non migliora approcciando alla questione del rapporto deficit / pil solo dalla parte del numeratore, pensando che il denominatore possa poi aumentare motu proprio. La conseguenza di questa miope illusione, che non ha assolutamente considerato il fattore tempo, è una falcidia delle piccole e medie imprese italiane, massacrate dall’ovvia conclusione di tale politica economica, ovvero un calo di consumi interni che oggi sta portando alla progressiva desertificazione delle imprese manifatturiere e commerciali.
Inutile guardare oggi al modello tedesco. La rielezione della Sig.ra Merkel conferma il fatto che la Cancelliere ha agito, come è giusto che sia, nell’interesse dei suoi concittadini che l’hanno premiata rinnovandole la fiducia. Tuttavia – sarà banale ma oggettivamente è così – la Germania non è l’Italia: faremmo bene a prenderne atto. Quel paese, da grande malato agli inizi degli anni duemila, ha saputo approfittare della moneta unica, ha attivato una politica di riforme strutturali ed è ripartito. Oggi la locomotiva d’Europa vorrebbe trascinare i vagoni dei paesi più deboli a seguirne l’esempio. Dimentica però che la rete ferroviaria – la situazione macroeconomica - è cambiata: l’alta velocità imposta dalla crisi e dalla globalizzazione impone che i vagoni meno attrezzati abbiano la possibilità di adeguarsi senza correre il rischio di deragliare. In altre parole, senza tornare sulle loro storiche ed oggettive responsabilità, possano mettersi in condizione di rimettere in moto la loro economia, agganciare i timidi segnali di un venticello di ripresa per poter tornare a crescere. Onde evitare di ripetere l’errore dei tecnici, anche in questo caso è bene rimarcare che il fattore tempo a disposizione è fondamentale, vitale direi.
Crescita diventa quindi la parola d’ordine. A meno che qualcuno non pensi che la porti la cicogna o la si trovi sotto un cavolo, dobbiamo essere consapevoli che senza risorse ed investimenti e, soprattutto, senza una significativa riduzione delle tasse su imprese e diminuzione del costo del lavoro – cuneo fiscale – la ripresa non sarà possibile. Tuttavia, dicevamo, la coperta è troppo corta: pochissimo fieno in cascina ed i parametri imposti dalla Comunità Europea, allo stato, non ci consentono alcuna libertà d’azione.
Dunque, che fare? Due sono le alternative, a patto di voler osservare razionalmente ed in modo pragmatico la realtà e non trastullarci in ulteriori perdite di tempo. La prima: osservare pedissequamente le direttive imposte, rigidamente ancorati su parametri che, sebbene condivisibili in astratto, prolungano di fatto l’agonia del malato con una terapia inefficace di piccoli tagli di spesa e interventi annacquati che porteranno solo ad una inevitabile continua necessità di nuove entrate, maggiori imposte ed austerità. Così facendo, l’unica conseguenza sarà quella che a breve ci ritroveremo senza imprese, ovvero privi del supporto sul quale poter contare per creare nuova ricchezza, ovvero crescita. A mio avviso, un cortocircuito perverso che altri paesi come Stati Uniti e Giappone, hanno da tempo intuito ponendovi rimedio con incentivi che stanno portando i loro frutti. Giova ricordare ed avere ben presente che tali paesi, insieme alle ex economie emergenti oramai realtà emerse da tempo, sono quelli con i quali dobbiamo confrontarci e competere sul mercato globale, non solo come Belpaese, bensì come Europa!
La seconda è quella di affrontare la situazione guardando in faccia i nostri partners europei, in particolare la Germania, dicendo loro chiaramente che, rispettando le condizioni che avevamo a suo tempo sottoscritto in modo avventato, semplicemente ma realisticamente non ce la facciamo ed abbiamo bisogno di allargare i cordoni della borsa. Si badi, non per spendere, ma per investire: c’è una grandissima differenza. E per essere credibili occorre che il Governo e la maggioranza che lo sostiene non pensi ad iniziative di piccolo cabotaggio, ma che predisponga un serio programma pluriennale che, insieme a massicci tagli di spesa, diminuzione del cuneo fiscale e delle imposte che pesano sulle imprese e sulle famiglie, possa liberare risorse e far riprendere gli investimenti senza i quali non ci può essere crescita. Deficit di bilancio, debito pubblico sono rapporti e numeri che perdono di significato se viene a mancare la capacità di produrre ricchezza, ovvero il pil: è elementare ed inevitabile che crescano se il denominatore non cresce.
Se l’Europa davvero intende proseguire nel suo disegno federalista, dovrà inevitabilmente prenderne atto: in una geografia economica globalizzata, non ci sono alternative se non quella di un misero e triste fallimento con ovvie conseguenze nefaste per le prossime generazioni di cittadini europei, tedeschi inclusi.
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