Che cosa insegna il caso Natuzzi
05 - 07 - 2013Romano Perissinotto
Con le sue dichiarazioni riportate sui principali giornali, Pasquale Natuzzi ha probabilmente innescato il timer di una bomba ad orologeria pronta a deflagrare con forza in quello che è (era?) il principale distretto italiano dell’imbottito per numero di pezzi prodotti.
La vicenda è legata al suo precedente annuncio di un piano industriale che prevede il taglio di 1.726 dipendenti della Natuzzi Spa. La causa di un così pesante ridimensionamento? La creazione – sostiene Natuzzi – ad opera dei suoi principali concorrenti di un “distretto fotocopia”, ovvero il proliferare di manodopera a bassissimo costo, molti cinesi, ma (e sarebbe ancor più grave) anche cassaintegrati da aziende in crisi che si ritrovavano poi a lavorare in sottoscale e capannoni di fortuna, pagati ovviamente in nero dagli stessi cinesi o da qualche imprenditore locale con pochi scrupoli.
La produzione di questi “laboratori” – denuncia Natuzzi – andava poi a fornire altri marchi commerciali noti, promozionati da famosi personaggi dello spettacolo. In sostanza, costi di produzione ridotti all’osso, investimenti massicci in comunicazione e pubblicità, prezzi di vendita impossibili da applicare per una produzione “lecita” … et voilà, il gioco è fatto: l’ex re del salotto si ritrova spiazzato ed è costretto a tagliare.
La denuncia di Natuzzi è molto grave e le accuse – se provate – rivolte anche all’ex presidente del distretto, oggi senatore eletto nelle file di Scelta Civica, sono davvero destinate a trasformare in una nuova Hiroshima quell’area martoriata, probabilmente non solo quella, date le risorse in termini di denaro pubblico impiegato. Basti ricordare che non più tardi dello scorso febbraio, uno degli ultimi atti del governo presieduto da Mario Monti era stato la firma di un accordo di programma per il rilancio delle imprese dell’imbottito di quel distretto.
L’accordo, prevedeva uno stanziamento di 101 milioni di Euro, dove il ministero dello Sviluppo concorreva per 40, la regione Puglia per altrettanti, i restanti 21 la Basilicata. La priorità dell’accordo era appunto il reimpiego dei lavoratori espulsi dalla filiera produttiva colpita dalla pesante crisi dei consumi e dalla concorrenza di produzioni estere. Peraltro, anche il buon Pasquale Natuzzi, dopo aver abbondantemente ricorso in passato a finanziamenti pubblici, a suo tempo non si era in trattenuto dal delocalizzare la produzione in Cina… Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni, se a Natuzzi arriveranno querele o se riuscirà a provare le sue accuse.
Oggi, quello che resta di questo comunque triste, addirittura surreale (secondo di come verranno chiarite le vicende) epilogo di quello che era un distretto fiorente – peraltro non solo di quello, visto che altre realtà, come per esempio la stessa Brianza, soffrono dello stesso problema – è l’amara conferma di come si stia sperperando un immenso comune patrimonio, quello rappresentato dal supermarchio made in Italy, un valore aggiunto immateriale che necessita di maggiori tutele e di una certificazione che definirei etica di tutta la filiera produttiva.
Sarebbe davvero un primo passo importante per garantire il talento e l’abilità manifatturiera delle nostre piccole e medie imprese, e non solo quelle, ne possano in futuro godere ancora compiutamente, potendo in questo modo mantenere una monodopera specializzata ovviamente più costosa e creare così nuova ricchezza a beneficio di tutto il sistema Paese, nel contempo confidando che uno Stato meno assetato e pervasivo rientri presto nei suoi esclusivi parametri d’azione, evitando finanziamenti ed interventi maldestri rivelatesi in molte altre occasioni quali solo sprechi inutili.
La percezione che i consumatori stranieri hanno del nostro lifestyle è grande, direi enorme: iniziamo quindi nel non deluderli con manufatti che, nei processi produttivi, di italiano hanno ben poco… spesso anche quando vengono realizzati in Italia. Un cliente deluso, o peggio confuso o ingannato, è un consumatore perso. Non possiamo permettercelo.
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